Una poltrona per due – Il segreto di una famiglia

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Telenovela d’autore

di Antonio Fiore
Gruppo di famiglia in un inferno: la grande tenuta si chiama “La Quietud”, la Quiete, ma dietro le sue porte regna l’inquietudine, ancora solo accennata quando il vecchio padre ex diplomatico viene colpito da ictus, e la figlia minore emigrata a Parigi torna in Argentina: qui ritrova l’affetto dell’anziana immarcescibile madre e un’ adolescenziale complicità (anche fisica) con la sorella maggiore. Ma i sogni della giovinezza e le rimembranze dei primi turbamenti erotici (“ah, ti ricordi l’idraulico?”) ora rivissuti in abbracci tutt’altro che casti lasciano presto il posto a un conflitto che solo la distanza aveva reso latente: la madre ama la secondogenita e odia (scopriremo più tardi il motivo) la primogenita che ha manie suicide ma che è anche (da 15 anni!) l’amante del marito della sorella minore; la quale, a sua volta, vive una tormentata relazione clandestina e transoceanica con un amico di gioventù. E qui siamo appena nel primo terzo del film, ciò che accade dopo posso solo accennarlo per non incorrere nel reato di spoileraggio: un’eutanasia ben poco caritatevole, un incidente automobilistico dagli esiti drammatici, una gravidanza simulata o forse isterica, un incombente processo che allunga sull’altolocata famiglia l’ombra infamante delle torture inflitte dai golpisti all’epoca del generale Videla; e infine un ovulo in prestito che finirà per fecondare una sorellanza più forte di ogni tradimento o infedeltà… Tanta roba, anzi troppa: abbastanza per riempire un’intera serie tv ma insufficiente per fare de La Quietud (questo il titolo originale) un film all’altezza del precedente titolo di Trapero, El Clan: tra le due opere c’è una qualche affinità (torbidi affari di famiglia che si intrecciano con la turpe storia dell’Argentina dei massacratori) ma qui il regista cavalca a briglia sciolta sul terreno del melò fino a sconfinare nei pascoli ben pettinati della telenovela. Telenovela d’autore (un paio di piani-sequenza e un tocco soft-core per épater la borghesia cinefila e festivaliera): ma sempre di telenovela si tratta.

Tutto un paese in una casa

di Marco Demarco
Sono molti i registi che hanno raccontato un paese intero attraverso la storia di una sola famiglia; che ne hanno raccolto segreti, ricordi e confessioni; e che frammento dopo frammento sono riusciti a mettere insieme i pezzi di una complessa identità nazionale. Ora lo fa Pablo Trapero. Anzi lo rifà, perché c’è il precedente de Il Clan. Ma tanto quel film era esplicito nel raccontare un’Argentina compromessa e torbida, con le mani ancora sporche di sangue per gli orrori della dittatura militare, tanto questo è delicato ed elegante nel cogliere gli aspetti più intimi e profondi dello stesso dramma collettivo. La famiglia la cui storia Trapero racconta non è altro che l’Argentina dei centri clandestini di detenzione, dei desaparecidos, e delle ricchezze accumulate con la violenza e l’inganno. Una famiglia-paese i cui componenti si amano, si tradiscono, si accusano, si separano, si ritrovano. Ma questa volta Trapero guarda l’Argentina con lo stesso trasporto con cui Mia ed Eugenia, nascoste in un armadio, guardavano il bel ragazzo venuto a riparare l’impianto idraulico della casa in cui ora si riabbracciano. Alla stessa maniera noi guardiamo loro, le due sorelle, mentre in un totale abbandono sensuale ricordano il tempo felice. È una scena ad alto tasso erotico, volutamente ambigua, sicuramente fuorviante, se non si rivelasse per ciò che in realtà è: non l’espressione di una banale perversione o la rappresentazione di una borghesia indifferente e annoiata, ma, al contrario, l’immagine assai più rivelatrice di una ricerca di innocenza. L’intento del film – mostrare la superficie ma indagare l’ abisso – è tenuto a bada per tutta la durata del racconto, e resta sotto traccia anche quando la regia alterna le deboli luci degli interni (la storia indicibile) con quelle accecanti del patio e del giardino (la natura incontaminata). Ma esplode davvero solo nell’ultima scena, l’unica fuori registro, quando Mia ed Eugenia tornano a sorprendere chi le guarda. L’eccesso simbolico dà però una prospettiva certa al film.

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