Il grande salto – Una poltrona per due

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I soliti (teneri) ignoti

di Antonio Fiore
Non è un film perfetto, Il grande salto. Ma nella sua imperfezione c’è più cinema e passione che in tutte le commedie-medie italiane della stagione, e già questo è un buon motivo per accogliere con gratitudine l’esordio alla regia di Giorgio Tirabassi, finora attore tra i più credibili della cosiddetta scuola romana. E romane restano l’ambientazione di partenza e la lingua, che però non scadono mai nel “generone”. Tirabassi si immerge nella periferia con lo sguardo rivolto ai maestri (Risi, Monicelli, Scola) ripescando due criminali da strapazzo, povericristi che sarebbero stati bene al fianco del Pantera e di Capannelle: soliti ignoti come loro, perseguitati dalla malasorte e dalla loro stessa dabbenaggine di mariuoli fisiologicamente incapaci di delinquere davvero: Rufetto (Tirabassi) campa sulle spalle di moglie e suoceri, il sodale Nello (un Ricky Memphis di commovente, keatoniana sobrietà) vive in una specie di antro sognando l’anima gemella, o almeno un corpo disponibile. Insieme si sono fatti quattro anni di galera per una rapina finita a schifio, e subito dopo il gabbio bissano l’insuccesso andando a ripulire un ufficio postale che si rivelerà ancora in allestimento… Seduti al bar bevono sciampagnetti e intanto sognano il “grande salto” che sembra concretizzarsi quando una banda di criminali veri propone loro di prelevare un’auto da rottamare assieme al cadavere chiuso nel bagagliaio. E qui arriva il primo colpo di scena (rischiando lo spoiler, lo definirei un colpo di fulmine): il film cambia improvvisamente direzione, da heist movie vira al grottesco (i due, per evitare guai peggiori, decidono di andare in pellegrinaggio verso un santuario appenninico) e poi, con un secondo brusco detour (il miracolo agognato da Nello ha effettivamente luogo, ma è un miracolo alla rovescia) svolta nel dramma, a stento recuperato dal sarcastico finale dove la tv del dolore fa le veci della provvidenza divina. Oggetto sorprendente, un film degli anni ’50 girato con la sensibilità e la rassegnazione degli anni in cui ogni “grande salto” è sempre un salto nel buio.

Nuova via per la commedia

di Marco Demarco
Credo che il problema dei film siano i trailer: promettono troppo o promettono male. Nel caso de “Il grande salto” di Tirabassi promettono male. Tutto faceva pensare a un film comico, o brillante, o comunque divertente. E invece è un film delicato, visionario, fuori da ogni schemino stilistico, e quasi “alieno” rispetto alle mode del momento, se non fosse per un improvviso ritorno sulla terra proprio nelle ultime scene. Ma attenzione ad aspettare il vero finale, perché la ruota non smette mai di girare. Per il resto, hanno ragione i critici di professione. Il rimando a “I soliti ignoti”, la lezione di Monicelli, le suggestioni pasoliniane: in effetti, tutto questo nel film c’è. E io ci aggiungerei anche un’allusione alla magia di “Miracolo a Milano”. Ma l’aspetto più importante, almeno per me, non sta nelle citazioni. Sta nel nel fatto che in questo film ho trovato quello che forse più segretamente cercavo: la rivincita italiana sulla sofisticheria francese e sull’azionismo americano, tanto più che la nostra commedia cinematografica nacque proprio, come lo stesso Monicelli ha poi spiegato, per parodiare il noir gallico e il gangster yankee. Tirabassi non ripete il già fatto, ma rende il giusto omaggio e va per la sua strada, tra l’altro appena iniziata. Questo vuol dire che nel film non sempre c’è il giusto ritmo e quando si ride non si ride facile. Ma visto il potenziale del plot (le rapine, gli equivoci, la sfiga quasi fantozziana) e assodata la qualità del cast ( bravi tutti) è chiaro che si è trattato di una scelta. La ragione è la riflessione sul destino dei poveri e degli ultimi: se questo destino è già scritto, di cosa bisognerà mai ridere? Giusto. Ma una commedia è sempre una commedia. Specialmente se italiana. E dunque aspettate il finale.

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