Una poltrona per due – The Irishman

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Un gigante tra i nani

di Antonio Fiore
Il Cinema esiste ancora, e uno dei suoi nomi è Martin Scorsese: con The Irishman il regista tocca una delle vette più alte di una ultracinquantennale carriera, e lo fa ritornando a quella comunità italoamericana spesso malavitosa in cui ha ambientato alcuni tra i titoli di maggior prestigio, da Mean Streets a Toro scatenato a Quei bravi ragazzi. Una produzione costosissima, protagonisti ringiovaniti via digitale per star dietro a un racconto fluviale che copre decenni, una gestazione durata anni il che è quasi sempre garanzia di risultato finale decotto: le condizioni per un clamoroso insuccesso c’erano tutte, invece The Irishman si erge come un gigante su una folla di nani. Che ciò sia stato reso possibile grazie al provvidenziale intervento della tv on demand sembra un paradosso; ma se oggi possiamo ammirare in sala (ancora per qualche giorno, pare) e dal 27 sul piccolo schermo l’ultimo sontuoso Scorsese, ringraziamo comunque Netflix e la sua “politica degli autori” perché The Irishman è un leggendario gangster movie in grado di dialogare con i capolavori firmati Coppola o Leone: una saga fatta di sangue, potere, amicizia, tradimento e crepuscolo senza l’alone nostalgico del Padrino 2 o il sentimento proustiano di C’era una volta in America ma con la fredda pietas di chi sa affondare lo sguardo nel gorgo del crimine restituendone tutta la banalità e la perversa “umanità”. Prendete Sheeran, l’irlandese: un brav’uomo capace di tenere insieme l’amore per la famiglia e i più efferati omicidi, di far convivere la gratitudine per il suo capo e la scelta finale di ammazzarlo, perché se proprio bisogna ucciderlo è meglio che lo faccia qualcuno che gli vuol bene… Oppure Russ Bufalino: un boss così gentile e affettuoso da fare, lui sì, veramente paura. O infine Hoffa, il sindacalista-star che si credeva intoccabile, ma… Con meno adrenalina del solito ma con la forza tranquilla che gli deriva dalla confidenza totale raggiunta con la macchina da presa, Scorsese dirige due tra i suoi attori preferiti (De Niro che qui si fa perdonare 20 anni di brutti film; un Joe Pesci da antologia mafiosa) e un immenso Al Pacino scespiriano anche in pigiama, osando dialoghi surreali dai quali anche Tarantino avrebbe da imparare, raccontandoci la politica Usa secondo Cosa Nostra e prendendosi tutto il suo tempo. E il nostro (a proposito: il film dura 3 ore e mezza. Non ho mai guardato l’orologio).

Oltre “Il Padrino”

di Marco Demarco
Ci sono molte ragioni per definire The Irishman, di Martin Scorsese, un film a cinque stelle o, per usare il criterio del mio compagno di rubrica, a cinque pallette. Ne
sottolineerò uno solo, che a me è parso sorprendente. I dialoghi. Nel film prevalgono sull’azione, eppure non la rallentano (e dire che quasi oltre tre ore su una poltrona sono una bella prova di resistenza). Anzi, è proprio quando i boss parlano tra di loro o di loro, dei loro acciacchi, delle loro debolezze e anche delle loro fisime, che la storia più ti prende. Sia chiaro, la storia narrata corre veloce perché Scorsese semplica senza pudore quella reale, e se avete ancora dubbi sulle più oscure vicende americane, dall’assassinio di Kennedy alla morte di Marilyn Monroe, passando per l’invasione della baia dei Porci qui tutto è squadernato, qui troverete tutte le spiegazioni che cercate, perché tanto c’è poco da svelare: dietro c’è sempre e solo la mafia. Ma detto questo, e assolta la regia da un simile peccato, la verità è che nel film la storia reale è davvero poco importante. Ciò che conta è l’uomo. La Storia, quella con la esse maiuscola, è marginale perché non è mai definitiva. Nulla, dice Frank Sheeran ( De Niro) lo è. Neanche la morte. E questo spiega il lungo finale del film, altrimenti fuori scala, in cui il ritmo lentamente si spegne. Non a caso, l’irlandese non vuole mai che si chiudano le porte: serrarle sarebbe solo un inutile ostacolo al fluire del tempo o del destino. Tutto questo, dicevo, Scorsese lo rende più con la parola, e dunque esaltando la recitazione, che con i fatti. Nei dialoghi non ci sono più la retorica e le frasi di una volta. Ogni ragionamento è ridotto all’essenziale, contano solo i dettagli, le metafore, le pause. Il risultato è una mafia invecchiata e malmessa, strappata all’epica de Il Padrino e riconsegnata a una dimensione in cui il ridicolo conta almeno quanto il tragico. Dopo film e film dedicati alla costruzione del mito mafioso ora lo stile resta, ma la sostanza cambia. E, ne approfitto per dirlo, era ora.

isposte

  1. Più che un commento una curiosità: come è possibile che un film corteggiato ed omaggiato in tutto il mondo( o quasi!) come è “ the Ireshman” non sia visibile a Napoli ne in provincia. Il film ha fatto una breve apparizione al “Delle Palme” per qualche giorno con un unico spettacolo alle ore 16!!!! Seppure giustificato dalla lunghezza del film stesso!!(3,5ore)
    Grazie per un riscontro.

  2. Purtroppo è la logica Netflix. Brevi uscite in sala come “lancio” della programmazione vera e propria sulla piattaforma… Va però detto che, senza Netflix, il film non sarebbe mai stato prodotto.
    (Mi scuso per il ritardo nella risposta, ma per motivi personali solo oggi ho potuto prendere visione dei commenti sul mio blog. Grazie per il Suo intervento).

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