“Io, mio padre il Che e le gatte di Raúl”

Aleida Guevara

A Napoli sono due gli argentini famosi: Maradona, e suo padre. “Sì, ma mio padre non è solo argentino, è anche cubano. Dunque è ancora più famoso”. Aleida, la figlia di Ernesto Che Guevara, è a Napoli per una serie di incontri (ieri con padre Alex Zanotelli sulla “voce dei senza voce”, oggi con la giornalista Rosaria Capacchione su “Donne socialmente utili”) organizzati dal Teatro Nest di San Giovanni a Teduccio, non lontano dal grande mural che Jorit ha dedicato proprio all’eroe rivoluzionario: di cui la 58enne Aleida, primogenita dei quattro figli nati dal matrimonio del Che con Aleida March, conserva nello sguardo una certa fierezza, mitigata da qualche lampo di femminile ironia.
“Resterò in Italia fino al 20 anche per raccogliere fondi per l’ospedale Che Guevara di Cordova, in Argentina, allo scopo di costruire un reparto specializzato per intervenire con la “stimolazione preventiva” sui neonati venuti al mondo con problemi neurologici o di sordità”.
Già, perché lei è innanzitutto una pediatra allergologa. Con un padre medico non poteva che andar così…
“In principio scegliere la professione di mio padre – i cui ricordi per me si fermano all’età di 4 anni, a quando tornava a casa a notte fonda per portarmi nel mio letto coprendomi di baci, prima della sua partenza per il Congo e poi della morte in Bolivia – è stato un tentativo di mantenere un rapporto con lui, ma presto ho capito che fare la pediatra era soprattutto un modo di restituire alla gente di Cuba un po’ di quell’amore incredibile che sin da bambina si era riversato su di me per il solo fatto di essere la figlia del Che, cosa della quale non avevo ovviamente alcun merito”.
Essere la figlia di un mito: non sembra una cosa facile.
“Ma il Che non è come Cristo, che nessuno di noi ha mai visto, toccato. Lui era un uomo in carne e ossa, anche se proprio a Napoli, anni fa, capii dagli sguardi di alcuni studenti universitari che cosa vuol dire essere un “mito”. La loro insistenza nello scrutarmi era tale che non sapevo se preoccuparmi o imbarazzarmi, poi si avvicinarono e mi chiesero “Ma lei è davvero la figlia del Che? Allora vuol dire che il Che era umano, proprio come noi…”.
Era la prima volta che veniva a Napoli?
“Sì, anche se attraverso i racconti di mia madre, che è una storica, Napoli – e soprattutto Pompei – era sempre presente nel mio immaginario. Poi, quando ho potuto finalmente visitare gli Scavi, sono rimasta senza fiato nello scoprire la modernità dei Romani: avevano persino l’acqua corrente nei bagni. E poi, guardando gli affreschi con quelle posizioni erotiche per me inimmaginabili, mi è venuto da pensare: avranno anche avuto gli schiavi, ma vivevano con più libertà di noi…
Libertà: un concetto così semplice ma così difficile da applicare ovunque nel mondo.
“Io la penso come mio padre, che diceva “Don Dinero è il feticista più grande che esista”. Il denaro è il feticcio in nome del quale si commettono i crimini peggiori, magari ammantandoli di nobili ideali. Ma non c’è guerra che non nasca dal desiderio di profitto e di potere. Prendiamo il Venezuela: ha la riserva di petrolio più grande del mondo, eppure la politica insaziabile degli Usa lo sta spingendo sull’orlo del baratro. E’ per contrastare il colonialismo in tutte le sue forme che io mi batto per tanti progetti. Come quello di Sin Tierra, il movimento dei contadini brasiliani. Per i quali sono finita persino a sfilare al Carnevale”.
Mi racconti.
“Accadde qualche anno fa a Florianopolis, una grande città del sud. Io ero stata invitata al Carnevale, come spettatrice – credevo. Invece fui fatta salire a viva forza su di un carro, dove sfilai a ritmo di samba. Finì che vincemmo il primo premio. Una grande soddisfazione. Ma sopratutto un guaio.
Un guaio: e perché?
“Perché sul carro accanto a me c’era anche un giovane in costume… da Che Guevara. Per i brasiliani era un grande omaggio a Cuba, ma mamma la prese malissimo. Mi tolse il saluto per tre mesi”.
Non si può parlare del Che, di Cuba, senza parlare di Fidel.
“Ho un solo rimpianto, non averlo abbracciato l’ultima volta che l’ho incontrato, già anziano e ammalato ma ancora pieno di vita. Però vorrei anche parlare di Raúl, suo fratello…”
Prego.
“Mio padre conobbe Raúl prima ancora di incontrare Fidel. Il Che stava a Città del Messico, lavorava in ospedale ma era già in contatto con i rivoluzionari cubani. Con Raúl in particolare, che gli procurava le gatte”.
Le gatte?
“Papà aveva bisogno di sezioni di intestino di gatte per metterle in una soluzione e ricavarne gli allergeni. Però come veterinario non era molto bravo: quando le ricuciva, le gatte quasi sempre morivano. Raúl glielo ricordò sempre: “Tu, come medico, una mano addosso non me la metterai mai”, scherzava. Ma non troppo: tanti anni dopo, ero una giovane studentessa, mi incontrò a una manifestazione pubblica, io gli feci il saluto militare, lui si avvicinò e mi chiese che cosa avessi deciso di studiare. “Medicina!”, risposi fieramente. E lui: “Speriamo che non diventi un medico scarso come tuo padre…”.
Antonio Fiore

Le foto sono di Sasà La Porta.

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