Leone, c’era una volta
in America (e in Irpinia)

5, Sergio piccolo e Roberto Roberti

Il suo nome era Leone, Sergio Leone, ma quando i produttori del primo spaghetti-western imposero al regista di trovarsi uno pseudonimo per dare un’aria hollywoodiana all’italianissimo film, lui non ebbe esitazioni: scelse di firmarsi Bob Robertson, ovvero “figlio di Robert”. Uno pseudonimo al quadrato, perché Roberto Roberti era a sua volta il nom de plume di Vincenzo Leone, il papà di colui che sarebbe diventato uno degli autori più amati del cinema non solo nostrano. E al padre di Sergio Leone (nato nel 1879 nell’irpina Torella dei Lombardi) è appunto dedicata in larga parte la mostra “Leone Factory”, uno dei fiori all’occhiello della 43esima edizione del Laceno d’Oro, lo storico festival internazionale del cinema che si chiude oggi ad Avellino: curata dallo storico del cinema Orio Caldiron e dal direttore della rivista “Quaderni di CinemaSud” Paolo Speranza, la mostra propone oltre 30 pannelli fotografici che riassumono il percorso familiare e artistico che unisce padre e figlio. La “malattia” del cinema fu infatti ereditaria, visto che Leone senior – amico di Scarfoglio, di Bracco, della Serao, di Di Giacomo – si era messo dietro la macchina da presa sin dai tempi del muto. Tra i molti melodrammi popolari ne va ricordato in particolare uno, La vampira indianaoggi considerato un protowestern all’italiana e in cui recitava anche Bice Waleran. Ancora un nome d’arte: Bice si chiamava in realtà Edwige Valcarenghi, ed era la moglie di Vincenzo Leone (e la futura madre di Sergio). Ma è con l’incontro professionale con la più popolare stella del firmamento cinematografico nazionale dell’era del muto che la carriera di Leone-Roberti spicca il volo: dirigerà infatti Francesca Bertini in una decina di film di grande successo come La contessa Sara, La sfinge, Marion artista di Caffè-Concerto, La donna nuda… Un cammino esaltante bruscamente interrotto dall’avvento del fascismo: i rapporti non facili con il regime lo tengono a lungo lontano dal set, ove tornerà solo saltuariamente (gira  nel ’39 Il socio invisibile con Tofano e la Calamai, nel ’41 La bocca sulla strada con una giovane Carla Del Poggio) firmando infine tra il ’42 e il ’51 (una gestazione come si vede piuttosto tormentata) l’ultima sua pellicola, Il folle di Marechiaro, in cui appare il figlio Sergio, nato nel ’29 e che di lì a poco avrebbe cominciato il suo entusiasmante percorso tra Cinecittà, Almeria (il set spagnolo dei primi western made in Italy), la Monument Valley dei capolavori della maturità, New York (la cornice dell’insuperato C’era una volta in America) e Leningrado, il luogo del suo ultimo sogno cinematografico, mai realizzato per la prematura scomparsa a sessant’anni. Il folle di Marechiaro, una pellicola introvabile ma della quale il curatore Paolo Speranza, valoroso topo di cineteca, è riuscito a recuperare e a riportare alla luce del proiettore un pugno di minuti: li abbiamo potuti ammirare il 6 dicembre al Laceno d’Oro assieme a La serpe (altro titolo leonino sonorizzato per l’occasione da Anacleto Vitolo) nel corso della serata dedicata ai Leone. Tra i dodici minuti salvati, ovviamente, anche quelli in cui un appena sedicenne Sergio Leone (già aiuto regista) recita nella divisa di un soldato statunitense. C’era dunque due volte in America.

Antonio Fiore

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