Caro Massimo, a 65 anni
sei un poeta anche tu

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“Quando ero ragazzo andai a vedere un grande film, Roma città aperta di Rossellini. Me n’ero uscito d’ ‘o cinema con tutte quelle immagini dint’ ‘a capa e tutte quante le emozioni dentro. Mi sono fermato un momento e m’aggio ditto… “Massimo, da grande tu ‘e ‘a fa’… ‘o geometra!””.
Alla fine, per sfinimento, il figlio del ferroviere di San Giorgio a Cremano prese davvero il diploma di geometra, ma fortunatamente per lui – e soprattutto per noi – non esercitò mai: nel suo destino non c’era il treppiede del teodolite ma quello della cinepresa, e oggi sono le sue immagini filmate (e le riprese dei suoi esilaranti sketch teatrali o televisivi) a restituirci intatte le emozioni della prima volta in cui facemmo la conoscenza con quella strana creatura dalla parlata incespicante e dal corpo in perenne dissidio con il mondo, un “minollo” dello spettacolo, animale fantastico a prima vista inclassificabile secondo le categorie tassonomiche della comicità.
Jean Cocteau sosteneva che il cinema è “la morte al lavoro sugli attori”: bene, almeno nel caso di Troisi il raffinato intellettuale francese si sbagliava, perché più rivediamo Massimo nelle sue performance e più lo sentiamo vivo, presente, quasi abbracciato a noi. Un ragazzo di 65 anni (tanti ne avrebbe compiuti ieri) con i capelli crespi e gli occhi che dietro l’allegria non riescono a celare del tutto una spaesata malinconia, un amico che ti faceva sbellicare dal ridere e un attimo dopo ti fregava la fidanzata, ma poi te la metteva giù così bene che finivi per riconoscere che sì, ti stava facendo un favore e forse dovevi pure ringraziarlo, ‘o ssaje comme fa ‘o core…
Il cuore di Massimo: una maledetta febbre reumatica contratta da bambino glielo aveva danneggiato per sempre, al punto che a 23 anni dovette partire per l’America. Emigrante? No. Turista? Nemmeno, purtroppo. Destinazione Houston, Texas, dove un luminare di cardiologia faceva miracoli meglio di San Gennaro. Si spiega forse così quella successiva, febbrile voracità di esperienze (ma paradossalmente unita a una leggendaria pigrizia di cui ancora si favoleggia) che fa di Massimo una presenza a tutt’oggi unica nel mondo italiano dello spettacolo: insieme indolente e attentissimo a ciò che gli accade intorno, Oblomov di periferia e lunare Pulcinella capace di irridere ai luoghi comuni lanciandoli come contundenti boomerang contro la napoletanità più vieta (“Tutti i napoletani cantano e suonano continuamente, vanno sempre in giro con chitarre e mandolini, negli uffici, sui pullman, ed è pure pericoloso per i bambini”), capace di giocare con l’amore (“un uomo e una donna sono le persone meno adatte a sposarsi”) e con la morte (al predicatore che in Non ci resta che piangere lo ossessiona con il tormentone “Ricordati che devi morire” Massimo risponde tranquillizzandolo “Mo’ me lo segno”).
In tanti hanno cercato di raccogliere la sua eredità clonandone i movimenti e l’eloquio afasico, ma nessuno tra i presunti eredi è riuscito mai a riprodurre quella miscela di canagliesco candore e disarmata perfidia, un ossimoro sentimentale che appartiene solo e definitivamente a lui.
Troisi si può imitare, tuttavia (come Totò, come Eduardo) resta inimitabile. Perché dietro la maschera del comico (niente affatto conciliante: lo sanno bene quei dirigenti Rai che al Festival di Sanremo dell’81dovettero incassare il suo forfait perché Massimo rifiutò la censura sull’intervento in cui avrebbe voluto parlare del terremoto in Irpinia) c’era l’ansia dell’artista che scalpitava per mettersi alla prova, rompere gli stereotipi in cui il successo tendeva a rinchiuderlo. Lo rivedo come fosse ora, nella grande casa dei Parioli in cui si era appena trasferito, in un immenso salone in cui campeggiava una batteria: io che cercavo di sapere qualcosa del prossimo film, lui che mi parlava ostinatamente di Pasolini, del vuoto che la sua morte aveva lasciato in Italia: “Vorrei avere la sua preparazione, la sua capacità poetica di denuncia”. Caro Massimo, oggi che hai appena compiuto 65 anni posso finalmente rivelartelo: sei stato anche tu poeta, perché come dice il tuo Mario Ruoppolo nel Postino (il film che volesti fare, dicesti, “con il mio cuore”, rimandando il trapianto che ti avrebbe forse salvato la vita) “la poesia non è di chi la scrive, è di chi gli serve”.

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