Da Gomorra a Sodoma
con “Pericle il Nero”

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Quando il romanzo d’esordio dell’ischitano Giuseppe Ferrandino uscì nel 1993 non se lo filò proprio nessuno. Ci vollero tutto il fiuto dell’editore francese Gallimard e poi il prestigio della Adelphi (che lo ripubblicò di rimbalzo in patria sei anni dopo) per farne un caso letterario di successo. Meglio tardi che mai: però adesso speriamo che il provincialismo italiano non condanni alla stessa sorte la versione cinematografica di Pericle il Nero, invitato in concorso a Cannes nella sezione Un certain regard ma già recensito negativamente da una schiera di cine-blogger che confermano la vecchia ma sempre valida tesi di François Truffaut: ciascuno di noi ha due lavori, il proprio e quello di critico cinematografico.

Occhio dunque a Gomorra, la cui seconda serie promette di eguagliare i fasti (e i nefasti dibattiti sociologici) della prima. Ma occhio all’opera terza di Stefano Mordini, che sposta l’azione dall’asse Napoli-Pescara a quello Liegi-Calais: operazione dettata forse da incroci produttivi (ci hanno messo denari anche i fratelli belgi Dardenne) ma in grado di regalare all’eroe negativo quella sensazione di sradicamento che è tra le caratteristiche vincenti dei noir “dell’emigrazione” (come ad esempio Una vita tranquilla di Cupellini, altro titolo ingiustamente sottovalutato).

Da Gomorra andiamo, in senso stretto, a Sodoma: la specialità di Pericle, sordido scagnozzo orfano (“Tu non dovevi proprio nascere”) al guinzaglio di un camorrista emigrato in Belgio, è infatti quella di sodomizzare (“fare il culo”, dice lui senza giri di parole) quelli che sgarrano nei confronti del suo padrone. Cane da presa che diventa cane randagio quando una sua missione punitiva prende una piega imprevista: Pericle uccide (o almeno crede di aver ucciso) una donna che si rivela essere Signorinella, vecchia matriarca del clan; da Liegi ripara a Calais, incontra per caso una francese madre divorziata che lo ospita, nasce in lui una impossibile voglia di normalità mai conosciuta prima. Ma i sicari lo incalzano, e di fuga in fuga Pericle tornerà in Belgio per la resa dei conti finale nella tana del suo ex padrone: lì si scioglieranno anche gli intricati nodi familiari della vicenda, con un epilogo che apre un timido spiraglio di luce nella coscienza di Pericle, animale predatore che ha scoperto in sé un barlume umano (e il ricordo va al Pierfrancesco Savino di Senza nessuna pietà).

Diretto senza (troppi) vezzi autoriali, il film pesa in gran parte sulle spalle di Riccardo Scamarcio, che fornisce qui la migliore e più matura prova d’attore: si è inventato per il suo Pericle una parlata para-napoletana dai registri bassi ma mai artefatti (anche nella voce fuori campo), e coglie del personaggio di Ferrandino gli automatismi pavloviani, l’animalità ferina ma anche la solitudine patetica e l’infantile spaesamento. Napoli, esiliata dalla sceneggiatura, torna con un grappolo di interpreti che confermano (ove mai ve ne fosse bisogno) la ricchezza del patrimonio partenopeo: Gigio Morra è l’orrendo patrigno-padrone, e la perfida megera Signorinella è Maria Luisa Santella. Madre di Valia, una delle co-sceneggiatrici di uno script che traduce bene sullo schermo (tranne che nel sottofinale, fin troppo dialogato) lo stile di Ferrandino: apparentemente freddo e cupo, ma attraversato da lampi di muta pietas.

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