Sorrentino, la grande magia in un documentario

Italian director Paolo Sorrentino arrives for the premiere of  'The Young Pope' during the 73rd Venice Film Festival in Venice, Italy, 03 September 2016. The movie is presented in Out competition at the festival running from 31 August to 10 September. ANSA/CLAUDIO ONORATI

“T’o ccrerive ca je d’ ‘o Vommero e tu d’ Afragola fernevemo ‘ccà”, ci credevi che io dal Vomero e tu da Afragola saremmo finiti qui a Hollywood con questa statuetta in mano… : è la battuta dolce e ironica di Sorrentino, appena premiato con l’Oscar nel 2014 per “La grande bellezza”, che Toni Servillo rievoca ne ”Il mondo di Paolo Sorrentino”, il bel documentario dedicato al mondo del cineasta napoletano firmato dalla regista Sandra Marti e dal critico Jean Gili presentato giovedì scorso nella sala Dumas dell’Institut français di Napoli in via Crispi.

Una giornata-omaggio (la proiezione è stata preceduta dalla presentazione del libro a cura di Augusto Sainati “Vero, falso, reale, il cinema di Paolo Sorrentino”) dedicata all’autore partenopeo raccontato dalla regista e dal critico transalpini (entrambi presenti stasera) attraverso dense interviste a lui e ai principali “complici”: oltre a Servillo, suo attore feticcio, il produttore Nicola Giuliano, il direttore della fotografia Luca Bigazzi, il montatore Cristiano Travaglioli. Ne  è venuto fuori, proprio nell’anno del centenario della nascita di Federico Fellini, il ritratto del più felliniano dei nostri registi: “restituire la verità attraverso la bugia, la realtà attraverso la fantasia”, ecco l’insegnamento del genio riminese che Sorrentino dice di voler mettere in pratica nei suoi film. Una “assidua frequentazione della bugia” che persegue senza però rinnegare l’amore per altri grandi: in principio Scorsese per la mobilità della macchina da presa, poi Scola, Monicelli, Risi, Petri, Bertolucci. Più un altro grande napoletano, Rosi, a cui Sorrentino non mancava mai di mostrare in anteprima i suoi film (“era uno che non mentiva”). E poi la progressiva scoperta dell’importanza degli attori (“Servillo non è solo un attore, è uno sceneggiatore aggiunto”), la libertà della scrittura contrapposta al set come “luogo di ansia” perché “bisogna occuparsi di troppe cose contemporaneamente”, e l’esaltazione del mistero, “il centro del gioco cinematografico”. Creare “un universo poetico autonomo” facendo da adulti cose da bambini: un gioco molto serio in cui tanto il produttore Giuliano (“Paolo sin dal primo film è stato cosciente del significato economico di quello che scriveva”) che il direttore della fotografia Bigazzi (“ci capiamo al volo”), il montatore Travaglioli (“Paolo è implacabile, spiazza ogni volta se stesso e i suoi collaboratori, alza ogni volta l’asticella della pericolosità, della sfida”) e Servillo (“Ha saputo dare volto ai fantasmi, l’alchimia tra noi è totale”) contribuiscono mirabilmente a creare. Assieme alla musica, del cui uso cinematografico Sorrentino è – a  parere di chi scrive – maestro assoluto ma di cui, sorprendentemente, nel documentario non si parla. Ma, forse, per raccontare Sorrentino e la musica ci voleva un intero film.

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