Una poltrona per due – Belle Époque

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Nostalgia canaglia

di Antonio Fiore
La nostalgia come malattia. Quando il passatista sessantenne Victor (Daniel Auteuil) decide di andare indietro nel tempo fino a quel 16 maggio 1974, giorno in cui incontrò Marianne, colei che sarebbe stata sua moglie per i successivi 45 anni (una regale Fanny Ardant) lo fa davvero per rigenerare l’amore ormai appassito per la donna che nel frattempo lo ha abbandonato? Oppure lo fa per rivivere il se stesso di mezzo secolo prima, le illusioni, le speranze, i sogni di un giovane uomo nella stagione incantata in cui tutto è ancora possibile proprio perché non è ancora accaduto? Il film del francese Bedos ci parla di questo: della volontà (e ovviamente della im-possibilità) di ritornare a vivere il tempo fatato di ieri. Temps definitivamente perdu, malgrado la perfezione tecnica della ricostruzione (un po’ macchinosa: alle prese con lo stesso tema in Midnight in Paris, Woody Allen se la cavava con un semplice incantesimo). Sì, perché Victor, per realizzare il suo obiettivo, si avvale dei servigi di una azienda (Voyages dans les temps, appunto) che garantisce l’assoluta attendibilità del set, dove maniacalmente si riproduce l’esattezza di ogni dettaglio, di ogni battuta, di ogni comparsa. E ho scritto “set” perché quello in cui Victor sceglie di vivere non è altro che un film per una sola persona: Victor stesso. Che diventa il protagonista consapevole e consenziente di un Truman Show dove il regista-demiurgo non lascia nulla al caso, dai manifesti elettorali di Giscard alle copie di France Soir ai pacchetti di Gitanes alle automobili Dauphine che punteggiano la narrazione. In cui ovviamente compare a un certo punto la versione giovane di Marianne: che interpreta il suo ruolo con zelo (e puntiglio) tali da provocare la gelosia del metteur en scene. Ma l’apparizione di Doria Tillier è davvero folgorante: e poiché l’attrice è stata (nella vita reale, dico) la compagna (e talvolta sceneggiatrice) del regista Bedos, capirete come il gioco di specchi fra realtà e rappresentazione si faccia ancora più ardito. Vincerà la nostalgia del passato o quella del futuro? Tra una sciarpa casualmente dimenticata e le note struggenti di Honey cantata da Bobby Goldsboro, il tempo perduto e quello ritrovato si sfioreranno.
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La Faux Époque

di Marco Demarco
La Belle Époque è un film ben fatto. Le scene sono perfette, specialmente quelle iniziali. E gli attori sono calati nel ruolo: Auteuil e Ardant sono già bravissimi se presi singolarmente, figuriamoci se messi l’uno accanto all’altro in ruoli che non solo tengono conto delle rispettive sensibilità, ma che addirittura sono stati costruiti apposta per esaltarle. Del resto, si vede: lui e lei, il nostalgico che odia i computer e la futurista che si porta la realtà aumentata perfino a letto, si beccano e si prendono che è una bellezza, e l’intesa sul set è tutta a vantaggio dello spettatore. Tuttavia… Sì, c’è un tuttavia. Bene gli attori, bene la regia, bene le scene, bene tutto, ma il guaio di film come questi è il presupposto, l’idea, cioè, su cui poggia l’intero impianto della sceneggiatura. Quando questa idea è troppo macchinosa o complessa rischia di produrre quel granello che blocca l’ingranaggio e rompe l’incantesimo, la magia del cinema, che alla fine consiste sempre nella sospensione della incredulità. Il problema non è il grado di improbabilità di questa idea, ma il suo apparire artificiale in virtù dell’eccesso di razionalità che si porta dietro. In La Belle Époque accade esattamente questo. Insomma, anche supporre un mondo in cui nessuno ricorda più i Beatles è fantasioso assai. Ma è fantasioso, appunto. E questa dimensione assolutamente fantastica aiuta ad accettare l’ipotesi, a non pensarci più, e a godersi, ad esempio, un film come Yesterday ( ce ne siamo occupati qualche settimana fa). Ma in La Belle Époque l’idea è di ricostruire il passato come se fosse una rappresentazione in cui chi ha commissionato l’operazione viene inserito con geometrica precisione emotiva. Ogni particolare al suo posto, ogni personaggio ben interpretato, ogni imprevisto ovviamente previsto. Troppo. E di sicuro più di quanto una normale predisposizione all’incredulità possa sopportare.

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