Una poltrona per due / Joker

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Freud versus Batman

di Antonio Fiore
Il riso abbonda sulla bocca di Joker, e il film spiega da che lacrime e da che sangue sgorghi: in principio era Arthur, ragazzo gentile con madre disfunzionale, clown umiliato, offeso e bullizzato fino al punto di non ritorno nella società, fino a farsi il più feroce dei criminali; terrore della casta, idolo della folla senza volto in cerca di un eroe vendicatore. Leone d’Oro a Venezia ’19, Joker non è il capolavoro che molti critici hanno creduto di vedere ma un film di solida fattura che tenta di dare spessore a un’icona a una sola dimensione: impresa lodevole quanto destinata al fallimento perché il genio del male creato dalla DC Comics trae la sua immane forza dal conflitto eterno con l’uomo-pipistrello che in questa origin story ovviamente non compare a contrastare la sua malvagia risata psicopatica, qui rictus pavloviano legato a inenarrabili sofferenze infantili. Cresce l’umanità di Joker, diminuisce la sua natura di Male Assoluto, di villain sempre al primo posto nella classifica dei personaggi più “cattivi” del fumetto. Joker e Batman sono legati per sempre, facce di una stessa medaglia: come ci ha spiegato quel capolavoro ironico dell’animazione che è LEGO Batman, l’uno non può esistere senza l’altro; e quando il Cattivone compie le sue malefatte non ci interessa conoscerne l’origine psicoanalitica, vogliamo solo sapere come il Supereroe sconfiggerà i piani dell’Arcinemico. Ciò detto il film di Phillips si fa notare, oltre che per la polverosa e affascinante immagine di Gotham City-N.Y. e l’abbondanza di citazioni (da Murnau a Scorsese il catalogo è infinito), per la generosa prova attoriale di Joaquin Phoenix: ma tutti i suoi meravigliosi folli passi di danza impallidiscono dinanzi a un solo fotogramma. Quello di Joker-Heath Lagder che avanza vestito da infermiera mentre alle sue spalle l’ospedale salta in aria nel Cavaliere oscuro. Cinema batte sempre Freud.

Il troppo stroppia

di Marco Demarco
Joker non è più super. Non ha più i poteri dell’anti-eroe. È anzi tragicamente mondano, appartiene alla sofferente umanità delle periferie sporche e violente, della marginalità sociale, del welfare negato, delle famiglie disfunzionali. Assomiglia a Travis Bickle di Taxi driver, ma non è come il personaggio di Scorsese, perché noi spettatori sappiamo che ha una storia diversa, sovrumana. Aspettiamo, dunque, che questa storia si manifesti. E invece, ecco la sorpresa. Ora Joker non solo non riesce a uscire dalle dimensioni di questo mondo, come gli è successo in tutti i film del passato, ma addirittura resta intrappolato nel suo stesso corpo: il tumulto emotivo gli tende i muscoli e gli sposta le vertebre, ma non lo trasforma mai del tutto. Non è più super. È minor. Joker vorrebbe parlare, vorrebbe comunicare, ma le parole in lui sono rare e dolorose, seppellite da una risata patologica. L’ultimo Joker è talmente nel mondo che finisce per rappresentarlo. Il suo è davvero lo stesso mondo malato di Greta Thunberg. Troppo diseguale, troppo abbondante per pochi e troppo povero per molti. E il troppo, si sa, stroppia. Ogni eccesso è negativo. L’eccesso guasta la quantità, la deforma, la corrompe. Proprio come succede al corpo straordinariamente recitante di Joaquin Phoenix. Ma c’è un problema. Anche questo film di Todd Phillips dice troppo, tanto da apparire a molti come un trattato di sociologia o un pamphlet politico. E il troppo trattiene la fantasia. Così anche noi, paradossalmente, rimaniamo intrappolati in una tesi che non lascia spazio all’immaginazione ma solo alla disperazione. E se il destino è segnato, se è nelle cose – come del resto già si vede nel film – che Joker diventi una moltitudine, a che serve combattere? Se la storia è lineare, perché darsi da fare? È il limite di tutte le visioni apocalittiche. Se poi arriverà Batman a tirarci fuori dai pasticci non possiamo saperlo. Qui non si è visto. Meglio: noi spettatori che sappiamo tutto lo abbiamo intravisto. Ma era lui? Chissà.

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