Una poltrona per due – Il sindaco del Rione Sanità

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Barracano il Giovane

di Antonio Fiore
L’incipit – tra Napoli notturna e musica rap – fa temere un Eduardo gomorrizzato, poi le cose prendono una piega assai meno banale: nel tradurre per il grande schermo la sua versione teatrale de Il sindaco del Rione Sanità messa in scena un paio di anni fa con il Nest di San Giovanni a Teduccio, Mario Martone rispetta quasi alla lettera il copione eduardiano (anche se fara’ discutere il “taglio” del finale) ma lo sottopone (come aveva fatto appunto in palcoscenico) a un drastico lifting: Antonio Barracano non ha più 75 anni ma è un quarantenne che si muove in un “teatro di guerra” contemporaneo; non ha più la posata “saggezza” dell’uomo d’onore ma la baldanzosa, felina reattività del boss che sa come la sua vita sia a (breve) termine. Resta però intatta la filosofia del criminale che si è dato la missione di amministrare la legge del rione in nome di una giustizia che non coincide con la legalità, anzi spesso ne diverge. Il Barracano di Martone (magnificamente interpretato da un Francesco Di Leva con la grinta di Muhammad Alì prima di salire sul ring) non tradisce dunque quello di Eduardo ma cerca di proiettarlo su una Napoli ancora più feroce e degradata di quella originaria: tuttavia i conflitti tra i personaggi che ruotano intorno al protagonista di questo teso kammerspiel partenopeo restano quelli caratteristici di una delinquenza – e direi di una psicologia – antica: e se in teatro la sfasatura socio-temporale giocava a favore di un suggestivo parallelo tra la criminalità di ieri e quella di oggi, al cinema quella (grande) magia rischia di restare intrappolata in un realismo ambientale che stride con le parole “alte” del testo. Altri prima e meglio di noi hanno saputo scandagliare le differenze tra il palcoscenico e lo schermo, qui si vuole solo rimarcare il fatto che i due linguaggi hanno regole (e tempi) completamente diversi: anche quando lo “sceneggiatore” è uno dei più grandi come Eduardo De Filippo.

Eduardo Savianizzato

di Marco Demarco
Bisogna essere Roman Polański per mettere quattro persone in una stanza per più di un’ora e farne un film (Carnage, per capirci). E bisogna essere Vittorio De Sica o Lina Wertmüller per portare sullo schermo una commedia di Eduardo dilatandone il valore (Matrimonio all’italiana o Sabato domenica e lunedì). Sono queste le ragioni per cui Il sindaco del rione Sanità di Mario Martone resta una rappresentazione teatrale anche al cinema. In più, l’allestimento da Gomorra-Laserie non risolve il problema, ma lo complica, perché travolge lo spettatore già alle prese con tutta una serie di annesse questioni filologiche. Questo spettatore sa che c’è una commedia di Eduardo; che questa commedia è stata messa in scena da Martone; e che quest’ultima è stata a sua volta ridotta a un film. Inoltre, sa anche che della commedia di Eduardo il nuovo regista ha conservato tutto, o quasi, ma non il finale, cioè la parte più impegnativa dal punto di vista del contenuto. Troppe implicazioni che alla fine risultano furbescamente utili più a far parlare del film che a farlo apprezzare. Perché Martone savianizza Eduardo, che è un po’ come unpostoalsoleggiare i Promessi Sposi? Perché lo amputa per farlo rimanere in una logica camorristica dalla quale aveva invece previsto l’exit? Alla fine è di questo che si parla, non di altro. A voler restare sul tema, poi, c’è ancora un dato da considerare. Perché, dopo averlo evitato per molti anni in nome della sperimentazione, Martone “riscopre” Eduardo? E perché quest’ultimo, che negli anni Ottanta e Novanta del Novecento era considerato un piccoloborghese buono a rappresentare gli interni di famiglia più che i tumulti di popolo, ora viene affannosamente rivisitato dalle avanguardie di un tempo? Gli interrogativi restano senza risposta. Il trasformismo (culturale, in questo caso) non è un male in sé. Lo diventa quando non è motivato.

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