Francesco Durante,
fuoriclasse della cultura

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“Anto’, ti piace Frank Zappa?”. “Sì, ma non sparato a tutto volume alle 8 del mattino!”, gli urlavo ogni santo giorno tentando invano di sopravanzare con la voce le note di Peaches en Regalia dal letto della mia stanza nell’appartamento che condividevamo in via Boccaccio, a Posillipo. Avevamo meno di trent’anni, e saremmo rimasti amici per altri trenta e più, intrecciando vita e giornalismo tra Napoli e Milano, tra quotidiani e settimanali, tra la redazione di inserti culturali e le avventurose imprese da inviati (molto) speciali. Amici fino a ieri, quando la notizia della sua repentina scomparsa a soli 66 anni ci ha sferrato una coltellata infinitamente più feroce di quella inflitta dalle schitarrate con cui Durante mi obbligava ad alzarmi come un sonnambulo e a seguire ipnotizzato il ritmo di Zappa, che poi era anche il suo.
Oggi tutti i media italiani ne piangono giustamente la fine ricordando il giornalista di valore, l’editorialista acuto, il raffinato traduttore dall’inglese (è lui la “voce italiana” di John Fante), l’infaticabile animatore culturale, l’appassionato studioso di letteratura italoamericana (una materia di cui resta il massimo competente grazie alla sua monumentale storia, un testo fondamentale anche negli Usa), il critico acuto, il narratore facondo, insomma l’intellettuale totale a cui molti aspirano e che pochissimi riescono a essere. Ma vorrei dire che per me Francesco fu molto più di tutto questo. Fu, soprattutto, una apparizione. Apparve infatti, nelle nostre vite di giornalisti del Mattino suoi coetanei, giovani ma già minacciati dal fantasma della routine, all’improvviso: alto, sguardo aperto e luminoso ma con una nota sorniona dietro gli occhiali da miope, sorriso disteso, esibiva un elegante accento nordico ma sosteneva di essere nato ad Anacapri; e già questo bastava a farne, per l’angusto mondo della stampa locale, una sorta di creatura mitica. Poi, superata in fretta la fase della curiosità, intuimmo quasi subito che questo mitteleuropeo-mittelmediterraneo era pure il più bravo di tutti. L’allora direttore Roberto Ciuni lo aveva scovato al Piccolo di Trieste, sradicato dalla Pordenone dove la famiglia anacaprese si era trasferita da anni per motivi di lavoro (il padre di Francesco era un militare) e assunto al Mattino assieme a molti altri, tra cui il sottoscritto (fino ad allora solo umile collaboratore) per ringiovanire e immettere nuova linfa nel quotidiano che con piglio bonapartesco stava rivitalizzando.
Di quella covata Francesco era senza dubbio il più brillante, quello destinato a volare più alto, e lo dimostrò con ampia facoltà di prova nei giorni durissimi ma professionalmente esaltanti del terremoto irpino: lui qualche tempo prima si era fatto le ossa, poco più che 20enne, in un altro terremoto, quello del ’76 in Friuli che aveva seguito appunto per il Piccolo, e di emergenze e stati di calamità e paesini irraggiungibili sulle montagne sapeva già tutto. Poco dopo le 19 e 34 (l’ora della scossa) da via Chiatamone saltammo dunque direttamente sulle auto noleggiate dal giornale senza nemmeno avere il tempo di sapere se avevamo ancora una famiglia (le linee telefoniche erano saltate) e per 20 giorni vivemmo fianco a fianco, ora per ora, quella tragica eppure fondamentale esperienza: si scriveva dove capitava rannicchiati con le nostre Olivetti sulle gambe, e io ogni tanto sbirciavo sbigottito il rullo che ingoiava a velocità folle il foglio bianco di Durante e lo restituiva pochi minuti dopo perfettamente compilato, senza neppure una battuta cancellata, pronto per essere mandato in stampa. Io invece arrancavo, cancellavo, pigiavo sui tasti, strappavo il foglio, ricominciavo. E poi a penna aggiungevo ripensamenti e “serpentelli” (la definizione è di Michele Bonuomo, sodale di quei formidabili anni) che facevano impazzire a Napoli i linotipisti delegati a incidere quei segni (trasmessi via Infotec) nel piombo.
Insomma: lui, Francesco, aveva nella scrittura l’eleganza insieme aristocratica e naturale di un mezzofondista come Sebastian Coe, io al confronto sembravo il proletario e sgraziato Steve Ovett che stentava a stargli dietro nei 1500 metri piani e solo in qualche rara occasione riusciva, mordendo l’aria, a batterlo: e se nel tempo il mio stile è migliorato diventando talvolta persino accettabile lo devo al duello impari con Durante, so per certo che – amando anche lui gli sport veri – questo paragone atletico gli sarebbe piaciuto.
Ma poi di Francesco colpiva anche l’aspetto giocoso, goliardico (lui che si era laureato con tutte le lodi a Padova in letteratura, e che a Napoli diventerà lui stesso professore) nel senso nobile del termine: del grande appassionato di musica rock ho già detto (devo aggiungere che lui, cantante e chitarrista di spessore, raccontava di aver dato l’addio al palco per farsi giornalista a tempo pieno bruciando il suo strumento elettrico alla fine dell’ultimo concerto tenuto con la propria band; io, per esagerare ulteriormente, aggiungevo che la sua banda erano i Pooh), ma tra le sue svariate passioni c’erano pure l’enologia (e noi, tirati su a Gragnano, in certe folli e movimentate notti napoletane apprendemmo da lui le prelibatezze dei Colli Orientali), la geografia (ogni anno, per aggiornarsi, acquistava e studiava da cima a fondo il nuovo Atlante De Agostini; disegnava con mano sicura perfette mappe di Paesi immaginari, segnalando con la giusta simbologia la città capitale, le città con oltre 100mila abitanti e quelle fino a 10mila; una volta osò severamente contestare, a me, incallito frequentatore di Cuba, che Marianao “non è un quartiere dell’Avana, è Municipio!”). E, ovviamente, su tutto, la letteratura: da Giovan Battista Marino a Domenico Rea (ci mancheranno, France’, anche i tuoi epici racconti degli incontri con don Mimì, che da perfetto manager editoriale guidasti alla conquista del Premio Strega con “Ninfa Plebea”), dal Barocco ai post-moderni non c’era territorio a lui incognito (“sei il maggiore esperto di autori minori”, mi ostinavo a provocarlo. Ma lui mi rispondeva con un sorriso non so se di incredulità o di compatimento). Rigore, più allegria, più passione: formula durantiana che segnerà tante sue prove, come la redazione di Ragù, l’inserto satirico del Mattino che diressi ma di cui Francesco fu protagonista assoluto (poi gettammo i capitoni nelle “vasche” del Banco di Napoli che era pure proprietario del Mattino, e l’avventura finì lì). Quindi cominciò l’inverno della stampa locale, le nostre strade si divisero ma tornarono a riunirsi prima a Milano (Francesco alla Mondadori e poi braccio destro di Leonardo Mondadori, io alla Rizzoli), infine di nuovo a Napoli. Proprio qui, sulle colonne del Corriere del Mezzogiorno. Dalle quali, ancora incredulo, saluto il collega, l’intellettuale, ma soprattutto l’amico.

isposte

  1. Un pezzo di vita se ne va. E porta con sè ricordi, emozioni, esperienze condivise. Che bel ricordo, Antonio, di Francesco Durante. E credo che avrebbe risposto “con un sorriso non so se di incredulità o di compatimento”.

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