C’eravamo tanto Avati

PUPI E ANTONIO AVATI_phFabio Demitri
PUPI AVATI_phFabio Demitri

Foto di Fabio Demitri

“La nostra prima volta agli Incontri fu un vero incubo”, racconta Pupi Avati, ieri a Sorrento con il fratello produttore Antonio per festeggiare i loro primi 50 anni di cinema: “Era il ’78, eravamo reduci dal successo tv di Jazz Band, e pieni di speranze portammo qui Le strelle nel fosso, favola contadina in cui credevamo molto. Ma il film fu programmato a notte fonda in coda a un film svedese, e come si sa i film svedesi non finiscono mai. In sala c’era tutto il Gotha della critica italiana: ma Morandini era rimasto senza contanti e pensava solo a dove cambiare un assegno, Cosulich si abbiocco’ di colpo sulla poltrona e il direttore Rondi aveva uno spazzolino da denti che gli spuntava dal taschino, segno che non vedeva l’ora di andare a letto. Un disastro al punto che io, terrorizzato, fuggii a piedi verso le alture di Sorrento: dove incontrai John Francis Lane, temutissimo critico inglese, che era uscito a metà proiezione e mi guardava con occhi di fuoco. Capii che il film non avrebbe avuto scampo. Poi, però, qui agli Incontri sono stato ospite con tanti altri film, e abbiamo avuto modo di rifarci di quella cocente delusione”.

Mezzo secolo di grandi successi ma anche di amarezze. Che non sembrano aver fiaccato l’entusiasmo suo e di suo fratello.

“Diciamo che non siamo stati mai molto Avati, pardon, amati dall’industria cinematografica italiana. Siamo stati emarginati, ma siamo stati noi ad andarcela a cercare. Quando in un salotto dove ci sono Moravia, Bertolucci, Bellocchio e Pasolini cominci a dire che vai in chiesa tutti i giorni o che voti democristiano vuol dire che ti vuoi fare male da solo, a tutti i costi. Però quando vedi come sono invecchiati bene i tuoi film rispetto a quelli di certi impegnatissimi colleghi, ti senti a posto con la tua coscienza di cineasta. Diceva Picasso che ci vogliono tanti anni per diventare giovane. E io, a 81 anni, lo sto diventando”.

Infatti in estate uscirà “Il Signor Diavolo”, horror con cui tornate a quel cinema di genere che avete spesso frequentato.

“Non solo. Abbiamo rimesso mano al progetto del Trattatello di Boccaccio, in pratica la prima biografia di Dante. Uscirà nel 2021, per i 700 anni della morte del Sommo Poeta. Che ovviamente non avrà il volto di Benigni, per il quale producemmo Berlinguer ti voglio bene: in effetti, l’unico vero flop di Roberto”.

Autoironia a parte: siete anche noti per aver reinventato la carriera di tanti attori regalando loro una “seconda possibilità”. Christian De Sica (“Il figlio più piccolo”) o Abatantuono (“Regalo di Natale”) vi devono molto.

“Sì, in effetti in giro ci chiamano la “Tintoria Avati”. Un caso esemplare è quello di Carlo Delle Piane: nessuno lo voleva più perché ormai girava solo filmetti scollacciati di serie Z, ma mio fratello mi convinse a prenderlo per Una gita scolastica, anche se lo feci lavorare camuffato con una parrucca bionda per renderlo irriconoscibile anche agli occhi del distributore. Risultato: Carlo vinse tanti premi, la sua carriera ripartì in grande stile. E un bellissimo incontro fu quello con Silvio Orlando per Il papà di Giovanna: pensavamo che lui, attore-feticcio di Moretti dunque volto di un cinema lontano dal nostro, avrebbe detto no. Invece da subito entrammo tanto in confidenza che ci raccontò come molti ammiratori, scambiandolo per Delle Piane, gli dicessero sempre “Ci saluti Pupi Avati!”. D’altra parte in tanti continuano a scambiare me per un altro regista. Un tale, in chiesa, mi si inginocchiò accanto e mi sussurrò: “Non sa che piacere mi fa fare la comunione con Tinto Brass”.

Gli Avati, grandi “provinciali” così legati all’Emilia, hanno mai pensato di girare un film a Napoli?

“Magari me lo lasciassero fare. Napoli ha ancora i cortili, parla del mondo dal quale noi veniamo. E poi vanta attori straordinari: di Orlando ho detto, ma avete un grande e sottovalutato Giacomo Rizzo, Nino D’Angelo, Angela Luce, Giovanni Esposito… Sì, saprei fare un film su una Napoli solare che esiste. Ma che al cinema nessuno vede più”.

 

(dal Corriere del Mezzogiorno del 14 aprile 2019) 

 

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