Catalogo degli intellettuali napoletani

In quanti modi a Napoli si può dire intellettuale? Alla luce anche dell’editoriale di Marco Demarco pubblicato giovedì scorso sul Corriere del Mezzogiorno è lecito interrogarsi sull’irreversibile mutazione che questa figura ha subito negli anni. Un tempo era infatti facile individuare gli appartenenti alle varie sotto-categorie: c’era l’intellettuale di sinistra (detto anche organico) sempre pronto a gettare il cuore (e talvolta pure il cervello) oltre l’ostacolo, l’intellettuale nostalgico per il quale si stava meglio quando si stava peggio (o, almeno, stava meglio lui), l’intellettuale moderato che si batteva con foga rivoluzionaria perché le cose rimanessero esattamente come stavano, l’illuminista-giacobino che lottava fieramente contro la monarchia non essendo stato avvertito che i Borbone (e persino i Savoia!) non ci fossero più da un pezzo; e poi c’era lo scettico blu, quello che il mondo rese glacial, un essere notturno e pessimista, nauseato dalla società di cui conosce gli inganni, elegantissimo, cinico e intimamente convinto della propria superiorità non solo culturale, bensì antropologica.
Ma oggi che le ideologie sono morte e anche il semplice pensiero critico non sta bene in salute, questa vecchia tassonomia non serve più a circoscrivere la figura dell’Intellettuale Napoletano. Forse – anche se è arduo riconoscerlo perché non porta più le ghette, il bastone di malacca e i guanti gialli – l’unico che resiste allo spirito del tempo è proprio lo Scettico Blu (a questo punto le maiuscole sono d’obbligo). E’ l’uomo vissuto, quello che ha visto tutto e non crede più a niente, frequenta le “prime” teatrali e le presentazioni di libri ma sempre con quell’aria corrucciata di chi preferirebbe essere altrove (ciò non gli impedisce di congratularsi calorosamente col regista alla moda o con l’autore di grido, visto che sulla poltrona in sala e sul libro autografato vanta per diritto divino la gratuità).
Per gli altri e più “militanti” intellettuali la vita si fa invece sempre più dura. Anche perché, come notava Demarco nell’articolo citato, a Napoli pure l’ascensore “intellettuale” si è bloccato, col risultato che a dibattere pubblicamente sono sempre gli stessi: saggi e autorevolissimi, per carità, ma la sensazione finale è quella che definirei Sanremo (nel senso che se la suonano e se la cantano, e tutto finisce lì). Che si tratti di regionalismo o di lotta alla criminalità, di impegno civile o di rinascita del turismo, le “voci di dentro” sono anche le voci di sempre: i toni variano, il risultato è il medesimo. Voci acute o baritonali, atteggiamenti da descamisados della sintassi o da puristi della lingua, non fa differenza. Il pubblico applaude, qualcuno alla fine chiede la parola (“Sarò breve” e poi resta avvinghiato al microfono per mezz’ora) e infine tutti a casa pronti per il prossimo, inutile confronto. L’ennesimo Rocky Balboa contro Apollo Creed, con in più la delusione rappresentata dal fatto che nel caso del match fra intellettuali non scorre (quasi mai) il sangue. Certo, c’è una ulteriore categoria di maître à penser che regge tetragona al cambiamento in atto: sono gli intellettuali da salotto come i barboncini (o i corgi, anche i cani da compagnia sono cambiati), che frequentano la buona società non solo partenopea, sono in genere mansueti ma ogni tanto nel loro piccolo s’incazzano e allora scrivono per i giornali cittadini indignati interventi in cui credono di rampognare i colleghi che invece li ignorano bellamente perché passano i loro giorni sui social.
E l’intellettuale social è infatti il vero intellettuale dei nostri tempi: costui non frequenta più convegni, biblioteche e gallerie d’arte, ma Twitter o addirittura Instagram (i più arretrati, invece, stanno ancora su Facebook a concedere o togliere dispettosamente amicizie): ormai è chiaro, l’intellettuale ha definitivamente rinunciato al tweed e ha scelto il tweet.

(dal Corriere del Mezzogiorno dell’8 febbraio 2019)

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