L’amica geniale, più artificio che incanto

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È giunta anche sul grande schermo la Ferrante fever: l’evento più atteso della stagione coronato dagli applausi all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, eppure il contagio al momento sembra di bassa entità visto che in una delle otto sale cittadine che ospitano L’amica geniale al primo spettacolo nel primo giorno di programmazione eravamo solo in cinque. Complici di sicuro il cattivo tempo e il prezzo del biglietto (fissato a dodici euro in quanto “evento speciale”), ma soprattutto il fatto che la versione cinematografica dell’ormai globale bestseller proponeva le prime due puntate della serie tv che arriverà sui teleschermi tra meno di un mese. Insomma, perché uscire di casa e pagare per assaggiare l’antipasto quando tra qualche settimana si avrà la possibilità di sbafarsi l’intera cena direttamente a domicilio, servita da RaiUno o da Tim?

Anche per il critico (cinematografico? gastronomico?) si pone analogo interrogativo: si può giudicare l’intera serie limitandosi all’entrée, senza aver degustato i plat de résistance previsti da un menu lungo otto episodi (e stiamo parlando solo della prima stagione)? Più che una critica, quella che segue sarà dunque un’impressione: e l’impressione è che Rai fiction si sia meritoriamente impegnata in una produzione di standard certamente superiore al mainstream imperante, che porterà concreti benefici alla sua immagine e ai suoi bilanci; e che la Napoli degli anni ’50 sia stata ricostruita con straordinaria perizia tecnica e con poche pennellate di quel colore/calore locale che altrove fa inevitabilmente di ogni “narrazione” partenopea una gouache immutabile nel tempo. Aggiungiamo pure che il romanzo (pardon, la saga) di formazione incentrato sulla coppia di amiche-nemiche-amiche Lila e Lenù ha trovato nel regista Saverio Costanzo un “traduttore” dalla mano sensibile e fedele, e che i volti e i corpi delle due piccole protagoniste sono quelli che corrispondono felicemente all’immaginario di una parte almeno dei milioni di lettrici e di lettori che hanno eletto la tetralogia ferrantiana a sacro livre de chevet.

Tutto bene, dunque? La versione cinetelevisiva del libro è la semplice continuazione de L’amica geniale con l’arma della macchina da presa al posto della penna? In un certo senso sì, ed è difficile pensare che in un’operazione multi-mediatica così abilmente costruita per il mercato internazionale ci fosse posto per il cosiddetto e obsoleto specifico filmico, cioè la possibilità di tradire il testo scritto per forzare il confine della parola con la potenza autonoma dell’immagine. Tuttavia gli sceneggiatori (lo stesso Costanzo, Francesco Piccolo e Laura Paolucci, cui va aggiunta la sempre inafferrabile Ferrante che ha collaborato ovviamente via mail) nella loro ossessiva ansia di fedeltà hanno commesso il tradimento più grande: e non mi aggrappo certo a quell’aggettivo pronunciato da Lila, “sbrilluccicante” (la Ferrante l’ha effettivamente utilizzato nel suo libro, ma non nel discorso diretto: sono pronto a scommettere che nessuna ragazzina napoletana degli anni ’50 conoscesse questa parola, e non solo nel popolare Rione Luzzatti mirabilmente ricostruito nell’ex area Saint Gobain di Marcianise); né penso alla citazione di Roma città aperta, con la donna che corre dietro alla camionetta della polizia e stramazza al suolo gridando “Alfredo!” invece di “Francesco!” (vabbè, prendiamolo come doveroso omaggio a Rossellini e alla Magnani). Mi riferisco piuttosto alla scelta di far parlare tutti i personaggi del film in una lingua napoletana standard, laddove la Ferrante utilizza con maestria dialoghi redatti in un italiano corrente con minime inflessioni dialettali e, sì, a tratti persino troppo alto per le umili condizioni sociali dei protagonisti: ma ottenendo così un effetto spiazzante che solo la Morante de L’isola di Arturo prima di lei (di lui, di loro, fate voi) era riuscita meravigliosamente a raggiungere. Qui, sullo schermo, la necessità del realismo si prende la sua rivincita, ma è una vittoria di Pirro perché va fatalmente perduta quell’aura linguisticamente straniante che è proprio “il” punto di forza narrativo della Lila e della Lenù “di carta”, il suo ammicco geniale. Ed è giusto Lenu’ (con la voce fuori campo di Alba Rohrwacher che racconta l’intera vicenda come un flashback lungo oltre mezzo secolo) che, a proposito del librino scritto dalla piccola amica geniale (ma chi sarà davvero l’amica geniale lo sapremo – lettori esclusi, però sono milioni – solo alla fine delle serie), individua il suo incanto nel fatto che “non si sentiva l’artificio della parola scritta”. Nel film, invece, l’artificio si sente.
Antonio Fiore

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