Nel Cratere c’è una “Bellissima” Sharon

SHARON CAROCCIA 

Regia: Silvia Luzi e Luca Bellino

Il Verismo applicato alla canzone neomelodica. In apertura del film la tredicenne protagonista Sharon Caroccia ripete davanti allo specchio la lezione scolastica sul movimento letterario mixandolo con la gestualità ingenua della cantante in erba, ed è quasi una dichiarazione di poetica da parte dei due autori, la marchigiana Silvia Luzi e il salernitano Luca Bellino: mostrare senza giudicare, come in un capitolo postmoderno del “ciclo dei Vinti”, scegliendo di stare letteralmente incollati ai propri personaggi. Sharon e Rosario, padre e figlia sullo schermo ma soprattutto nella vita. La Luzi e Bellino, che vengono dal documentario e qui lo scavalcano senza rinnegarlo, li hanno cercati per mesi, e li hanno infine trovati quasi fuori tempo massimo in una fiera di paese davanti al loro furgone carico di peluche: Rosario annunciava la riffa, Sharon cantava per attirare il pubblico. La sceneggiatura era già scritta, ma dopo l’incontro è stata rimodulata sulle “vite vere” dei due interpreti. Così, l’ambulante Rosario è un padre che vede nelle qualità canore della figlia un’occasione di riscatto sociale ed economico per sé e per la propria famiglia, Sharon una ragazzina che ama sì cantare ma recalcitra davanti alla fissazione paterna di farne a tutti i costi una piccola star di periferia. Esercizi vocali, aerosol, frustranti sedute in sala di registrazione, partecipazione (ovviamente a pagamento) a scalcagnati show di tv locali… Tra Casandrino e Sant’Antimo, in quel “cratere” che inghiotte i sogni anche più luminosi (il titolo allude pure a Crater, costellazione debole visibile solo nelle notti di primavera e solo nell’emisfero Sud del mondo) sembra di essere in area Indivisibili, ma in realtà si aggira piuttosto il fantasma viscontiano di Bellissima: gli autori lo sanno bene, ma sanno anche che tra l’ossessione della Magnani e quella di Rosario è cambiato per sempre il rapporto con i media. Il mondo del cinema era mito inafferrabile per la mamma del film di Visconti, mentre l’incubo del successo obbligatorio nella società odierna si riproduce e sembra sempre a portata di mano attraverso una sovrabbondanza di immagini (i video della figlia che Rosario colleziona maniacalmente da quando Sharon aveva quattro anni) che paradossalmente finiscono col cancellare l’identità stessa del soggetto. E il punto di crisi nel rapporto tra padre e figlia sta proprio in questo: Rosario di lei non vede che l’immagine riprodotta all’infinito, Sharon “è” ormai solo un frame, la traccia di un cd, un fantasma elettronico in un sistema di telecamere a circuito chiuso.
Film necessariamente claustrofobico che inchioda i suoi protagonisti in primi e primissimi piani, sfondi volutamente fuori fuoco, mai un campo lungo o un “totale” a dare tregua o respiro al pubblico: Il Cratere esige uno spettatore totalmente complice di un rigore autoriale talvolta disposto a spingersi ai limiti del sadismo: ma verrà, alla fine, ben ricompensato da un’esperienza di fiction che si ribalta continuamente nella realtà e viceversa, senza mai restare prigioniera del localismo kitsch ma risultando anzi capace di comunicare un disagio al di là di qualsivoglia confine geografico o culturale (il premio speciale al Festival di Tokyo lo prova). Ma tutto sarebbe risultato più affannoso e catatonico se al centro del Cratere non brillasse di luce propria Sharon: un’esordiente che ha saputo dare al suo personaggio sfumature, rabbie e gioia e sguardi e silenzi che lei stessa non sapeva di avere. Come il Jean-Pierre Léaud dei Quattrocento colpi, Sharon possiede la grazia e la naturalezza di chi ha il cinema nel proprio destino. Bravi Luzi e Bellino a trovarla, bravissima lei (che nel frattempo ha cominciato a realizzare il suo sogno di cantante partecipando con successo al televisivo Sanremo Young) a diventare sé stessa sullo schermo.

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