Mi raccomando, non raccomandate

Si calcola che il re delle Due Sicilie Ferdinando II abbia ricevuto, durante un suo soggiorno a Palermo, oltre 28mila raccomandazioni in un solo mese. Ma la vocazione alla “spintarella” non doveva certo essere una prerogativa esclusivamente meridionale visto che in pieno regime fascista il segretario del Pnf, Achille Starace, provò addirittura a legalizzarla scrivendo in una circolare del 1933 che “è superfluo rinnovare il tentativo di sradicarla anche perché, alla fin fine, quando le raccomandazioni sono fatte a scopo di disinteressata assistenza, nulla vieta che siano accolte ed esaminate benevolmente”.

Monarchia, dittatura o democrazia, il risultato non cambia: in un film dell’Italietta pre-boom Mario Riva era il “raccomandato di ferro”, simpaticissimo ex usciere romano che, grazie alla lettera apocrifa di un sottosegretario, riusciva a compiere una folgorante carriera incantando i colleghi e deliziando il pubblico.

Bei tempi, quando la raccomandazione era per così dire gratuita, non implicava cioè un passaggio di denaro in cambio di un posto di lavoro. Grave illecito che ai giorni nostri appare ormai così diffuso da causare strascichi legali quando il raccomandante, pur avendo intascato il compenso pattuito con il raccomandato, non riesce nell’intento di procurare l’ambito posto fisso a lui o alla sua disoccupata prole: è il caso di un padre di Torre Annunziata che, avendo versato 20mila euro a un amico a suo dire capace di ottenere un impiego per la figlia presso il Banco di Napoli, si è rivolto alla giustizia per ottenere la restituzione del maltolto (o del malaffidato, fate voi) denunciando l’amico (ormai ex) per truffa.

Ebbene, dopo un lungo e altalenante iter processuale (no alla restituzione della somma in Primo grado, sì in Corte d’appello) la Cassazione ha emesso il verdetto definitivo: chi paga per ottenere un posto lo fa a suo rischio e pericolo, perché se la raccomandazione fallisce i soldi restano a chi se li è messi in saccoccia. Sia ben chiaro: il livello di “turpitudine” tra chi dà e chi prende, scrivono i supremi giudici a scanso di equivoci, è il medesimo, ma i soldi devono restare a chi li ha presi, perché “in pari causa turpitudinis melior est condicio possidentis”.

Traducendo dall’aulico brocardo giuridico latino dei sommi magistrati al napoletano popolare di tutti i giorni, possiamo dunque concludere che chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato, scurdammoce ‘o passato ma scurdammoce soprattutto la pessima (e, come si vede, talvolta controproducente) tentazione di imboccare presunte scorciatoie. Mi raccomando…

Antonio Fiore

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